Buona lettura
Niente inglese, siamo in classe
La lingua straniera alle elementari è stato un flop
The sky is... Coraggio, il colore della tua squadra: b.... Il bambino arranca. Tentiamo con i numeri: dopo l’8, il nulla. Eppure il programma d’inglese dice che a fine quinta si dovrebbero conoscere 300 parole. Qualcosa non va. Vabbè, c’è la scusante Italia: politici locali che organizzano corsi di dialetto a scuola (paga la provincia di Milano) e leader nazionali che parlano “greco antico” ma si fanno scortare dall’interprete. Per Eurobarometro (dati 2008), 6 italiani su 10 non sanno sostenere conversazioni one-to-one. Infine c’è la tradizione del doppiaggio, che impedisce l’ascolto dei film in originale.
Intanto, la formazione dei docenti: si punta al risparmio. I programmi dell’85 identificavano due tipologie: gli “specialisti”, che insegnavano solo la lingua straniera, e gli “specializzati”, che insegnavano la lingua straniera insieme con le altre discipline. Nel 2007 è iniziato il taglio degli 11.200 “specialisti”, poi azzerati con la Finanziaria del 2009: alcuni si sono riciclati come “generalisti”, altri rimessi in pista nel “sostegno”, altri infine hanno perso il posto. Agli aspiranti “specializzati” il Ministero ha offerto un corso di 300 ore per arrivare al livello B1, quello degli studenti al biennio delle superiori. Poco, ma ora è anche peggio. Finiti i soldi, a maggio è partito un minicorso di 50 ore, peraltro neanche concluso. Pazienza. L’input è arrangiarsi: che ci vorrà a spiegare “the pen is on the table”? Errore: «È più impegnativo insegnare inglese ai bambini che agli adolescenti» contesta Silvia Minardi, presidente di Lend, un’altra associazione di docenti del settore (lend.it). «Serve una competenza alta per introdurre una lingua attraverso attività pratiche animate come giochi, disegni, canzoni.
L’alternativa è insegnare a memoria i numeri. Tempo perso. In una classe ho visto un lavoro intitolato: I love basket. Peccato che basket sia cestino, mentre lo sport è basketball» continua. Jacqueline Madden, autrice di Pixie, corso d’inglese leader alle elementari (De Agostini), sottolinea la cronica mancanza di mezzi: «La lezione frontale non basta, soprattutto con le classi troppo affollate di quest’anno. Sarebbe utile la consulenza di lettori madrelingua, ma costa e quindi è prevista solo in alcune superiori. La multimedialità? Non ci sono né computer, né lavagne interattive. I programmi puntano “sull’approccio ludico” e “l’aspetto orale della lingua”, impossibili da realizzare se la formazione è insufficiente e il docente resta in cattedra». Aggiunge John Bleasdale che l’estate scorsa, a Feltre, ha organizzato per conto dell’università Ca’ Foscari di Venezia una full immersion per maestri: «Quando ho consigliato un elenco di siti utili mi hanno risposto: belli, ma le scuole non sono in rete. E sì che erano motivati e in qualche caso anche molto preparati: su 45 iscritti, avrò avuto un 10 per cento di eccellenti».
Alla fine, come spesso in Italia, i pochi bravi volenterosi fanno la differenza, in una realtà fatta soprattutto di laboratori chiusi e di vocaboli imparati a memoria. Per questo certe promesse fanno sorridere. I Clil per esempio, le discipline non linguistiche che verranno insegnate in inglese all’ultimo anno delle superiori. Chi scrive ha visto alcune classi Clil al lavoro (Io donna n. 9), con risultati strepitosi. Ma sono, appunto, progetti pilota. «Secondo la riforma, si inizierà tra quattro anni in tutte le scuole» conclude Porcelli. «Ma quanti professori sanno insegnare chimica o matematica in inglese? Se non partiamo al più presto con la formazione sarà un flop». E l’ennesima scommessa persa.
Cristina Lacava
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